“Ci toccherà allargare la nozione di realtà
a un terreno fisicamente così inafferrabile
come la memoria…”
Tadeusz Kantor
Che sia per il nerofumo delle candele o per il fondo opalescente della cenere delle notti e dei giorni, resti effimeri e disseccati di una qualche combustione che lentamente ha consumato il senso delle cose prima ancora della loro densità di materia, il lavoro d’immagine di Jean Marie Barotte è profondamente infitto in qualcosa che somiglia a un’estasi d’impietosa introspezione mnemonica, alla radice stessa del sentimento d’esistere. Le sue forme muovono da un territorio della coscienza espressiva che si direbbe prepittorico, o addirittura prelinguistico. I materiali visivi che le compongono e le inquietano rimandano difatti a un impulso profondo, a una sorta di dinamismo inconscio che sgorga dalle leggi primordiali del sangue e dell’istinto. Al punto che, quando le si incontra le prime volte, che siano tratte dal ciclo dedicato alla poetica della Noche oscura di Juan de la Cruz o da quello delle Méditations érotiques, vien fatto di pensare inevitabilmente e banalmente a una versione più minimale, più cupa e assorta, della grande lezione dell’espressionismo astratto americano. Dando loro, però, il tempo di penetrarci, non è difficile accorgersi che questi suoi lavori concedono ben poco alle suggestioni del visivo e del materico, come invece accadeva per quella scuola. Sono anzi, ben al contrario, “poveri” di pittoricismi e sensibilismi, magri, percorsi piuttosto da una essenzialità scabra, da una riarsa perentorietà, tanto più sensibile quanto più rigorosa e scarna. Qualcosa come un oscilloscopio dell’anima, come l’asciutto tracciato di uno straordinario, fulminante sismografo emotivo. Perché – diciamolo – Barotte è pittore allo stesso modo di come un poeta può essere tecnicamente definito scrittore. Vale a dire che le sue “parole” pittoriche, il repertorio di tracce e materie visive delle sue immagini finite, questi suoi formidabili, minimalissimi segni di movimento e di sentimento, assumono il medesimo valore significante dei vocaboli che compongono i versi di una poesia. Evocano oltre il detto (e il dicibile): dunque dicono non per il loro senso, ma in virtù del ritmo, della suggestione, della corporeità di cui sono fatte, degli echi di sapori che sollevano, delle materie di cui sono intrise. E sono “parole” di graffi e calligrafie lontane, ombre di sangue e sinopie, ferite inferte e cauterizzazioni invocate, tracce riassunte e compresse nella passione della sintesi e nell’impulso lento dell’emozione, capaci di intrecciarsi da una parte a slanci romantici e sentimentali e, dall’altra, a vertiginosi assottigliamenti, a prosciugate visionarietà. Come se il nostro artista, nel tempo immateriale e alchemico che trascorre dinnanzi ai suoi cartoni, alle tele e alle sostanze che lentamente vi si sono addensate, entrasse in risonanza con qualcosa di ampio e di incorporeo, con idee e palpiti non altrimenti esprimibili. Come se questa sua pittura per brani e tessere lacerate, ben più che un’attività che risponde a una nominabile strategia d’espressione, fosse invece il portato generale di un modo d’esistere e di resistere, una ragione per essere nel mondo e per sopportarlo, per ricordarlo sul serio, per reagire all’inconoscibilità delle sue ossessioni e delle sue contraddizioni. Minuziosamente, pazientemente, attentamente, ogni segno di queste immagini è dunque (o potrebbe essere) la stazione di un voyage de l’âme che Barotte sente sgocciolare nel suo intimo, proveniente dalla memoria delle cose e degli accadimenti, dagli echi di ciò che è stato, dalla durata pervicace del ricordo. Una rievocazione, una reminiscenza, un ritrovamento mnemonico filtrato da una sorta di implacabile macchina insieme filosofica e lirica, smontata e rimontata passando per gli anni in cui l’artista ha lavorato come interprete a fianco di Tadeusz Kantor nel suo teatro, che l’induce oggi a tracciare e contemporaneamente cancellare lettere nervose e irritate, calligrafie spente, tremiti di graffiature e precarietà di fondali… Certo tutto questo è comunque pittura, e per questo talvolta accade (nei diversi cicli, nei diversi periodi) che i suoi materiali bituminosi, gli impasti densi e le tormentate velature, le spatolate e i graffi, i frottages e l’ossimoro delle calme frenesie di queste sue materie minime, si mutino in elementi di stile, richiamando – dicevo prima – linguaggi e lezioni plurali dell’espressionismo astratto del secondo dopoguerra. Ma è anche evidente che un tale richiamo si ferma subito alla mera superficie. Si limita all’ombra ossificata di questi segnali e di queste tecniche, a poche e sparse impronte di una calligrafia febbrile, scabrosa e rarefatta. Ciò che conta, ciò che rimane negli occhi e nel cuore di chi non è distratto da uno sguardo troppo avvitato sul presente o troppo legato alle mere vicende della forma, è il succo interiore di questa pittura: è la sua astanza drammatica, la rappresentazione intensa e catartica di cui è capace, in cui affiorano ossessioni personali, reminiscenze e nodi irrisolti e irrisolvibili, senza apparente soluzione di continuità pur nel trascorre e trascolorare dei soggetti, dei pretesti tematici, dei titoli, in una zona di confine tra la vita e la morte, in un limbo dilatato e sensibile tra letteratura e cronaca, realtà e sogno, pensiero e gesto. In una dimensione in cui la memoria, agganciata a questi lacerti di sostanza esistenziale, rappresenta l’unico possibile e ragionevole filtro per guardare alla realtà… Il pubblico si trova dunque confrontato a due possibili letture, magari simultanee, di un medesimo racconto emozionale, l’una più gonfia e concitata, l’altra più esangue e più mentale ma, entrambe, ben infitte nel tessuto stesso del mondo d’oggi, nella tossicità e nei languori delle sue arie attuali. C’è qui, difatti, qualcosa che trasforma la seduzione della pittura nel senso di una interrogazione sottile ma ferma: qualcosa che permanentemente richiama il vivissimo sentimento di una visione, il respiro di una assorta constatazione e di un’ancor più concentrata riflessione. Si tratta di una visione, appunto, visionaria, trasfigurata, cioè condotta sul filo ardente di una metaforizzazione intonata sul lirico e l’impulsivo, poiché questi dipinti, in realtà, non hanno altre intenzionalità che essere “solo” conseguenza dell’immaginario, esito tangibile e quasi automatico di fantasticazioni sul filo della filosofia, un mandala che richiama icone e appunti di una sorta di itinerario iniziatico. Per un viaggio nel quale ci si può ritrovare “per una selva oscura” e procedere fino al momento che si potrà tornare – virgilianamente accompagnati dall’autore – “a riveder le stelle”. Non sono, insomma, brani o frammenti di un qualsivoglia racconto compiuto, di una precisa cronaca d’episodi e d’accadimenti esistenziali. Tutto, in fondo, è lasciato a noi. Il diritto della poesia a parlare le suggestioni della sua lingua – ci dice Barotte – è un diritto sovrano.
Giorgio Seveso