Jean-Marie delle Notti
Chiara Gatti
C’è tutta una letteratura del nero cui sembra riallacciarsi Jean-Marie Barotte quando dipinge le sue opere al lume di candela, lasciando che la fiamma le tinga dolcemente, memore dei riti degli stampatori del Seicento che mescolavano piano il “nero di fumo” all’olio di lino o a quello di noce per farne un inchiostro grasso e lucidissimo.
Altrettanto misteriose sono le alchimie che Jean-Marie utilizza per miscelare i vapori del fuoco e trasformarli in tavolozze nei toni della cenere, del fango, della caligine. Alchimie che tiene segrete. Non per diffidenza, ma per una certa dose di delicata modestia che lo porta a parlare del proprio lavoro con frasi asciutte, mentre accarezza con affetto paterno immagini piccole come breviari. Pare facesse lo stesso il grande Rembrandt con le sue incisioni a misura di palmo: si dice le orchestrasse fra le dita, rigirandole lentamente sui cuscinetti di sabbia che aiutavano il bulino a scavare solchi perfetti nella lastra dura, intrecci fittissimi di linee sovrapposte fino a ottenere l’oscurità profonda, vellutata e tragica delle sue stampe migliori.
Eccolo qui il primo maestro di quella genealogia del nero che Barotte cita con garbo. Per la verità, a chi gli chieda quali siano stati i suoi maestri ideali, Jean-Marie risponde senza dubbi: «gli spagnoli»; ma si sa che, nel cuore del “secolo d’oro”, le Fiandre come l’Andalusia furono contagiate allo stesso modo dalla potenza del modello caravaggesco e che, da Roma a Napoli, dalla Sicilia a Malta a Siviglia, patria di Velazquez, altro signore delle tenebre dipinte, la pittura europea incontrò ovunque il demone della notte, intesa come culla di un’umanità dolente, di una realtà quotidiana e insieme universale, oltre che terreno di prova per autori dal mestiere solido, capaci di misurarsi con il potere sinistro del nero pesto quanto la pece, dimostrando una stupefacente qualità della loro pittura cupa. Onore al genio. Che Jean-Marie Barotte ha studiato e ammirato fin da ragazzo, quando, nelle sere parigine, leggeva Edmond Jabes o Jacques Derrida mentre scopriva Goya, Zurbaran, Georges de La Tour con le fiammelle dei suoi ceri, così reali da scottare le mani.
A guardare oggi i primi lavori di Barotte, profili sinuosi, paesaggi nell’ombra, vengono in mente i fumi di Mattia Preti, che lo storico dell’arte Roberto Longhi definì «stilista sovrano» pensando alla sua pittura fatta di materia (o)scura, illuminata all’improvviso da «panneggi più friabili della neve». Anche Jean-Marie stupisce per i passaggi inattesi che spesso lo portano a spezzare il nero con una lama di luce, una ferita, uno strappo o anche solo una parola che pare scritta col fuoco. E vengono in mente ancora i tizzoni accesi di El Greco e le torce di Gerard van Honthorst, che la storia ha ribattezzato poeticamente Gherardo delle Notti, per il suo talento nell’affogare le scene nel buio.
Una formazione antica e una scuola classica, insomma, la cui lezione emerge nelle prove più minute di Barotte quanto nelle tele alte e strette, simili ai rotoli stesi dei Manoscritti di Qumran. Su tutte ha innestato i modi una ricerca contemporanea, debitrice a sua volta di altri cuori lividi del Novecento – Antoni Tàpies in testa – ma venata sempre di molta letteratura. Cosa naturale per lui che ha studiato recitazione ed è uomo di teatro fino al midollo, capace di sintetizzare in una battuta, in un gesto libero (figlio della regia e delle improvvisazioni di Kantor!), tutta la complessità di un testo. Sul palco o in pittura, per Jean-Marie Barotte l’espressione è infatti soltanto una questione di equilibri, di ritmi, di chiaroscuri, giochi calcolati di presenze e assenze. E lo spazio dell’immagine, proprio come quello dell’azione, è uno spazio aperto, da attraversare con un tratto, un verso, prima di andarsene via. In questo modo, quasi fossero pagine di un copione, si possono leggere le sue opere percorse da segni, apparizioni, tracce che la mano scava nella fuliggine con pettini di fortuna, rami sottili che lasciano impronte di cortecce, rivoli di cera. La materia è cangiante. Il nero non è mai sordo. Ma vibra di luci nuove, lunari.
«Nero latte dell’alba ti beviamo la notte» scriveva Paul Celan nella sua Fuga di morte. Jean-Marie sembra evocarlo quando divide teneramente l’orizzonte in zone d’ombra e bagliori soffusi, quando la luce emerge dal basso e si diffonde come un’onda; un fuoco fatuo galleggia a mezz’aria sopra un pendio; un fiume plumbeo scava il suo corso in una distesa di neve; la schiuma di un mare astratto ribolle su un litorale nero-cenere; parole indecifrabili, ispirate ai passi Jabes, scorrono sulla terra, come un monito, una litania. Talvolta hanno il colore del sangue e graffiano la superficie laddove l’istinto grafico di Barotte incontra il poema spirituale di Juan de la Cruz e della sua noche oscura, trascritta anch’essa col dito nella cenere, mentre la fiamma lieve della candela rischiara l’aria intorno, senza tuttavia diradare le ombre lunghe della coscienza. La tenebra resta impenetrabile, come il mistero dell’esistenza. Il cero – ci ammonisce il nostro “Jean-Marie delle Notti” – può essere d’aiuto per avanzare piano, a passi felpati nell’oscurità, ma non può ispezionare lo spazio nel profondo, non può indicarci la strada, non può sollevarci dai mille dubbi e della tribolazioni della vita. È un antidoto, un conforto alla paura di perdersi lungo il sentiero. Per questo semina cenere al suo passaggio. Tornando a Derrida, la cenere conserva tracce di noi che il fuoco non s’è portato via del tutto. Qualcosa resta sempre. Consunto, sfumato, sbriciolato. Ma resta. E Barotte lo raccoglie con cura e ne colleziona la polvere, amorevolmente. Cenere di una notte nera dell’anima e della pittura.
L’evento nell’immagine > conversazioni
Nelle immagini inventate dal gesto dell’arte l’evento risulta incessante. I suoi due volti continuano a interrogarci: quello dell’artista, nel suo esporsi a una vertigine abissale e quello dell’osservatore, trascinato e trattenuto in una scena infinitamente animata.
Partecipano:
Jean-Marie Barotte, artista
Giancarlo Ricci, saggista e psicanalista
Michele Tavola, storico e critico d’arte